29 novembre 2012


"Danielone"
1940-2012


08 marzo 2012

Saranno le donne a cambiare il mondo?

L’8 marzo non deve essere una festa per le donne ma deve essere un momento di riflessione: una giornata durante la quale ci si incontra, si discute, si riflette sulle conquiste e su come difenderle e ci si organizza per contrastare gli attacchi ai diritti delle donne, che, purtroppo, sono ancora calpestati in ogni angolo del mondo.
Le discussioni sono volte a fare dei bilanci, riflettere sulla gestione delle conquiste e a gettare le basi per nuovi obiettivi. Perché in tutte le donne, nel bene e nel male, c’è una voglia di riscatto, di giustizia, di liberazione, di emancipazione.
Ultimamente, bisogna ammetterlo, si è persa questa abitudine e così i fioristi, le industrie dolciarie, i ristoranti hanno un po' trasformato e falsificato il significato, il senso della giornata. Ovviamente non è in discussione la celebrazione di questo appuntamento anche con momenti di festa. In fondo, essere felici e fiere delle proprie conquiste è un diritto delle donne.
Occorre però avere un obiettivo comune: invitare tutte le DONNE a riappropriarsi dei valori e del significato originale di questa giornata facendo sentire la propria voce ogni giorno.
L’8 marzo deve essere un momento per ricordare le donne esempio della nostra vita, le donne conosciute attraverso i libri e le donne in carne e ossa, persone che della libertà hanno fatto un ideale concreto da perseguire, tutte quelle donne della storia e quelle donne comuni che hanno lottato per degli ideali, ma è anche il momento di “fare” e di decidere:

- di aiutare le donne umiliate, vessate e in difficoltà a conquistare libertà e dignità,
- di impegnarsi nel sociale per migliorare la qualità della nostra vita, 
- di confrontarsi con gli uomini civilmente e paritariamente, 
- di insegnare ai propri figli i veri valori della vita sostenendoli nelle difficoltà e nel conquistare con tenacia spazi interiori, 
- di condividere le proprie esperienze con le altre donne con umiltà, 
- di saper ascoltare senza giudicare, sempre e comunque,
- di costruirsi per se stesse.
Perché?
Perché l’energia dalle donne scaturisce da un misto di amore, indignazione, idee, commenti, risate contagiose e desiderio di fare la differenza.
Perché nel mondo femminile discutere di un problema o ammettere un errore non permette solo di instaurare legami o ridurre lo stress ma genera sostegno, idee e possibili risorse.
E’ importante valutare l’opportunità di cambiare l’organizzazione del lavoro, valorizzando le competenze ed il sapere delle donne, affermando che la differenza non è un problema ma una risorsa.
E’ necessario valorizzare ed accrescere capacità, competenze, professionalità combattendo le discriminazioni e situazioni penalizzanti per le donne, sviluppando condizioni organizzative che permettano alle qualità maschili e femminili d’incontrarsi nel lavoro, producendo sinergie anziché contrapposizioni.
E’ bene ricordare che sessant’anni fa, il 1° gennaio 1948, è entrata in vigore la Costituzione Italiana e le donne sono entrate formalmente nella vita pubblica nazionale. Sono finalmente nominate nei principi e nei valori inviolabili che disegnano la democrazia.
Inizia il lungo e ancora incompiuto cammino delle donne italiane per i diritti, l’emancipazione sociale, la parità. Inizia “la rivoluzione delle donne” che cambiando la loro coscienza, cambia il volto del nostro Paese, gli stili di vita, le leggi.
E’ stata una rivoluzione lunga, ma non è ancora conclusa.
Nonostante le donne di oggi siano ricche di talenti e di forza, la società e la politica non sanno avvalersene pienamente, gli ostacoli non sono ancora rimossi, gli uomini italiani non sono ancora compiutamente europei e moderni, il potere è saldamente tenuta nelle mani maschili. Questo ritardo, pesa, non solo sulle donne, ma sulla qualità delle classi dirigenti italiane.
Perché?
Non è solo una questione culturale di attaccamento a modelli consolidati, di pigrizia nell’innovare. C’è anche una questione di potere.
L’organizzazione del lavoro non è solo uno strumento tecnico per far funzionare l’azienda: serve in buona parte al vertice aziendale per mantenere il suo potere, attraverso il modello di pianificazione e controllo.
Si può dire che è un modello tipicamente maschile, che definisce il mondo aziendale attraverso un’astrazione dove tutto è stato messo in un posto definito, e a quello ci si attiene: tutto ciò che non è contemplato non si può fare. Perché così si pensa di controllare tutto. Ed è così che restano fuori le donne e le loro richieste di tener conto della nuova realtà aziendale.
Sono questi meccanismi che le donne rifiutano, e con le loro proposte improntate alla concretezza svelano il funzionamento del potere. Ma qui il volere delle donne si scontra con il potere degli uomini.

Le donne sono tradizionalmente orientate al potere di fare, anche se spesso in azienda finiscono per lavorare molto e poter decidere poco. Oggi bisognerebbe ritornare al significato originale di questa parola: potere come possibilità, possibilità di agire, di far succedere le cose.
In questa visione c’è un’idea di un potere costruttivo, generativo che cambia e si trasforma.
Una visione che più che una cultura di potere esprime una cultura di governo. Perché indica un modo di guidare e prendersi cura dell’azienda e delle persone che vi lavorano, non di dominarle. Non con il comando, ma con l’autorevolezza.
La cura, la guida, il governo, sembrano tre parole prese dal vocabolario e dall’esperienza delle donne. Eppure sono tre parole che, ovviamente dette in inglese ricorrono nel vocabolario di management: take care, leadership, governance. Nella nostra lingua sono tre allontanamenti concreti dal modo astratto di intendere il potere nelle aziende, tre assunzioni di responsabilità.
La possibilità di governare l’azienda in una diversa direzione, sta nel non seguire le regole definite della cosiddetta governance per riuscire a tener conto dei diversi interessi. Questa è la cura e la guida: avere la consapevolezza che ci sono interessi compresenti. Governare un’azienda come si governa una famiglia, dando valore alle persone.
Si possono introdurre nuove idee e nuovi modi di lavorare con le donne perché non partono da ideologie, da modelli, ma partono da un loro progetto, da un loro modo di concepire il bene dell’azienda. Hanno chiarezza sul proprio progetto, su cosa si vuole e come lo si vuole. Non c’è certo l’illusione di cambiare l’azienda di colpo. Si tratta di muoversi tra i vincoli della realtà, cercando di spostare le politiche nella direzione del proprio progetto, di negoziare per spostare la realtà. Nella convinzione che un modo diverso di governare le aziende è possibile, che un’azienda diversa è possibile. Io credo che le "vere donne" siano quelle capaci di prendere coscienza , a livello collettivo, che spetta loro cambiare il mondo e di assumersi la responsabilità di fare la propria parte nel governo delle aziende, del Paese, a tutti i livelli, ma a modo loro. Nel mondo ci sono uomini che possono molto perché hanno, perché sanno, perché decidono. Le donne contano poco, ma credono e amano molto. Quando gli uomini si renderanno conto che l’umanità è un’unica famiglia in cui le donne e gli uomini devono partecipare in modo eguale, potremo sperare di cambiare il mondo.


Francesca Sgroi 

21 gennaio 2012

Te Deum laudamus

Abbiamo a che fare con truffe, grassazioni tentacolari, anonime, insonni, irresponsabili ed immense, che ci hanno preso tutti in contropiede. La voracità di pochi si alimenta di miliardi di bit impazziti. E come i computer vengono spesso protetti da degli anti-virus, che sono venduti dalle società che hanno messo in rete i virus stessi, così, adesso, sovente ed assurdamente, chiamiamo a risolvere il marasma finanziario coloro che, in un modo o nell'altro, lo hanno prodotto traendone immensi benefici. Ci stanno rovinando i multimasterizzati, gli azzeccagarbugli poliglotti, gli apprendisti stregoni della finanza globale, i matematici iperspecializzati in imbroglionologia. Ci salveranno gli uomini di buona volontà. Ci riusciranno perché sono tanti, credono negli affetti, non si lasciano intimorire, sanno soffrire. Anche se i giornali non ne parlano mai. Te Deum. E tu se puoi, mi raccomando, dacci una mano. Non prevalebunt, non prevarranno. Ce lo avevi detto tu, no?
Pier Luigi Magnaschi (Tempi 11-1).

01 ottobre 2011

Banca Popolare di Milano: una nobile decaduta

Sono riluttante a scrivere di Bpm. Troppe emozioni, troppi ricordi, troppe ferite appena rimarginate.
Ma l'odissea della sua governance, come si usa dire oggi, merita qualche modestissimo commento.
La peculiarità delle società cooperative è il voto capitario in assemblea. Conta il libro soci, non le azioni possedute. È certamente un concetto che sa di socialismo ottocentesco e di sana cultura mazziniana, ma funziona egregiamente, checché ne pensi Draghi, a precise condizioni.
1) La sfera decisionale dei manager, del consiglio di amministrazione e delle rappresentanze dei soci si riconosca reciprocamente totale autonomia nell'ambito delle specifiche competenze.
2) La banca sappia esprimere una redditività ed un'efficienza operativa di buon livello.
3) Il Consiglio di amministrazione sia la proiezione delle migliori istanze economico-culturali del territorio di riferimento.
Questa è l'unica "velina" che ha diritto di cittadinanza in una cooperativa e che ha ispirato per decenni i delicati equilibri e rapporti della Bpm, che fu negli anni '80 fra le prime otto banche italiane e, fra le popolari, seconda per dimensione alla Novara ma prima per efficienza gestionale (negli anni '90 vinse l'oscar del più trasparente bilancio bancario).
Sono passati quattro lustri e sono arrivate nuove generazioni di soci-cooperatori, che forse non hanno saputo distinguere il possibile dal passibile e si sono inebriati nel gioco del potere, senza l'umiltà di studiare la storia e senza la consapevolezza che una banca non è un consiglio comunale e che gli errori nessuno li ripiana. I consigli si sono sbiaditi qualitativamente e la gestione è stata a uomini di cultura finanziaria certo poco sensibile alle connotazioni storiche di una cooperativa forte e radicata sul proprio territorio e della cultura media dei livelli manageriali interni.
Ci si sono messe le crisi sistemiche e globali, certamente, ma da quelle ci si difende meglio se si è se stessi e non si scimmiottano improbabili modelli gestionali.
Si è dispersa una bella cultura bancaria, forse ruspante, ma genuinamente vicina alle esigenze del territorio; si sono fatte prove di grandeur espansionistica che hanno dilapidato il patrimonio aziendale e trovata impreparata la banca a dimensioni troppo dilatate.
Questa la mia analisi, discutibile, ma questo percorso introspettivo sarebbe stato bene che tutti gli attori in campo lo avessero fatto prima di esercitarsi in formulette statutarie che paiono pensate più per conservare lo sbagliato che non per recuperare l'originario spirito e il consenso e la solidarietà della clientela e del territorio.

30 settembre 2011

Nell'intervallo, una morbidella farcita di marmellata fatta in casa

Siamo agli sgoccioli di un settembre estivo come non se ne ricordano, ma la politica non ha cambiato spartito, sempre arroventata e vuota di contenuti propositivi. Da un lato un governo inesorabilmente infiacchito, con una maggioranza che non crede più al dovere di governare e si riposiziona per la conta elettorale prossima a venire; dall'altra un'opposizione con l'elettroencefalogramma piatto, che sa solo gridare terribili anatemi contro Berlusconi, ma dopo due anni non ha ancora detto quale sarebbe la sua ricetta di governo per toglierci dalle sabbie mobili.
Se la cultura di comando è la medesima del governo municipale di Milano della strampalata coalizione di Pisapia e del rancoroso Tabacci, viene francamente da rabbrividire.
Tutto finirà in vacca? No, tranquilli! È come ce lo spiega, in un arguto fondo di oggi sul Giornale, Marcello Veneziani.

Alla fine per stanchezza verrà Casini
(di Marcello Veneziani, su Il Giornale del 30/09/2011)

Dopo Berlusconi prevedo Casini. Mi azzardo a fare una previsione, anzi una profezia. Nella sfera di vetro ho visto il faccino di Pierferdy. Dopo il diluvio verrà la pioggerellina. Quando si tira troppo la corda alla fine si spezza, non scappa il morto ma scappano spaventati i presenti. Si accendono le luci in sala e arriva l'intervallo con i popcorn. Casini è la tregua tra due film. Casini delude tutti ma in modo tenuo ed equilibrato. Casini non entusiasma nessuno ma non dispiace a nessuno. Casini rassicura, non suscita gli amori e gli odi di Berlusconi e degli anti, ed è pure munito di conforti religiosi. Alla fine verrà Casini perché le guerre civili cercano poi la pace domestica. Perché disfatte le case della libertà, si torna ai palazzinari ed ai loro congiunti. Perché prima o poi tornano le mezze stagioni. Perché da noi anche nella scienza trionfano i neutrini. Perché dopo le erezioni viene la mosceria. Perché quando ci vogliamo divagare dopo una giornata intensa, andiamo in centro. Perché quando vogliamo addormentarci prendiamo il bromuro democristiano. Casini è l'ultimo prodotto dell'antica farmacia del Corso, è la camomilla parrocchiale. Magari non dice granché,non eccelle, non ha mai governato, ma ci fa riposare. L'Italia è il paese dell'acqua né liscia né gasata ma lievemente frizzante; l'Italia cerca sempre una via di mezzo tra Roma e Milano, alla fine ci si incontra a Bologna. Infine perché Casini è il peluche che ci lasciò mamma Dc quando morì, per farci compagnia la notte al buio.

26 agosto 2011

Giornale di bordo del 26 Agosto

Appello a Via Bellerio.
Chiudete in un convento di clausura Calderoli!
Per quanto scassata sia la politica italiana, risparmiateci almeno questo Tecoppa delle Orobie. L'ultima esternazione sulle pensioni di reversibilità è miserevole ed indegna e dimostra una insensibilità sociale inammissibile.
Invito gli amici alla lettura molto istruttiva e condivisibile dell'articolo di Giorgio Fedel sul Corriere a pag. 45 intitolato: "Perché manca una morale civica".
La chiusa è giustamente sconfortata sulla capacità di inventarsi un collante che tenga unita questa sgangherata comunità.
La retorica della patria, al di fuori del contesto liberal-risorgimentale corrotto dal fascismo, non ha retto l'usura degli anni e degli eventi ed il tentativo di riportarla in vita degli ultimi due Presidenti della Repubblica è caduto nell'indifferenza popolare, se mai è solo servito ad alimentare la stanca creatività dei markettari della pubblicità.
Cosa ci resta? Forse la riscoperta delle comuni radici cattoliche potrebbe essere l'avvio di una consapevolezza unitaria che la politica oggi non sa più promuovere.

20 agosto 2011

Borse e stregoneria

C’è chi sta facendo e farà ottimi affari, approfittando di Borse che offrono prezzi sempre più bassi. Fra quanti possono gioire non rientrano i governi (mica solo il nostro), perché impotenti. I giornali titolano sui miliardi che vengono “bruciati”, vale a dire persi per colpa dei ribassi. La cosa non è del tutto ragionevole, perché avrebbero dovuto far titoloni anche sui miliardi che furono “creati”, quando gli indici sono stati improntati, per lungo tempo, al bello o al sereno. Il fatto è che quegli strilli non avrebbero attirato un gran interesse, perché è difficile credere che la ricchezza possa essere inventata e, comunque, la gente che cammina per la strada ed entra al supermercato non coglie il nesso fra i gloriosi rialzi borsistici e lo spessore del proprio borsellino. Un nesso che, al ribasso, vuole invece prepotentemente imporsi.
C’è sempre, quel nesso. Anche gli abitanti del paesello di campagna, che sorbiscono il caffè al circolo e vanno di briscola al tramonto, pur magari non avendo mai investito una lira in Borsa, hanno visto crescere il valore dei propri immobili. È avvenuto anche grazie al fatto che c’era gente disposta a pagare di più per avere un rifugio lontano dalla città. Nei sistemi aperti, la maggiore ricchezza degli uni arricchisce sempre gli altri. La maggiore povertà, di converso, li impoverisce. Ma fino ad un certo punto.
I governi che guardano alle Borse, cercandovi gli auspici per il futuro immediato, sono come i comandanti che interrogavano gli aruspici per sapere della sorte in battaglia: si spera, non del tutto in balia della divinazione. I mercati non sono governati da occulte cabine di regia o da comitati esecutivi di gente cinica e competente. Nella gran parte dei casi, funziona la logica del gregge: battete le mani da una parte e le pecore vanno tutte dall’altra. Ciascun operatore osserva il proprio computer e cerca di reagire in tempo reale, sulla base di modelli matematici, all’andamento della giornata. Siccome i modelli sono simili, va a finire che si muovono all’unisono. Talora provocando disastri, perché un gregge che corre cieco sui tuoi campi te li distrugge, e prega che non siano bisonti e di non trovartici in mezzo. Che loro non sappiano cosa fanno e non ne avessero l’intenzione è, alla fine, irrilevante.
Qualcuno crede di star per assistere ad una crisi del capitalismo. Sbagliato, assisterà alla sua vitalità. Quello che va in scena è l’inciampo della finanza, che crea un tonfo enorme. La finanza può agire da sistema nervoso del capitalismo, indicando quali sono i settori che i mercati considerano promettenti. Ma se lo droghi, un sistema nervoso, lo inganni. E lui, per vendetta, inganna te. Come quelli che prendono l’lsd e si lanciano dalla finestra con l’idea di volare, finendo spiaccicati al suolo. La finanza contemporanea ha veramente fatto credere che si potesse inventare la ricchezza, sicché oggi lascia titolare che la si brucia, ma, in realtà, quel che mangiamo va coltivato, allevato e preparato, quello di cui ci vestiamo va cucito, e anche impreziosito con il bottone del colore giusto. Se, poi, considero ricchezza quel bottone e lo valuto più del cappotto divento ricco e famoso finché dura, dopo di che crollo e faccio crollare, anche perché il cappotto s’usa per il freddo, non per il bottone. Se dico di avere eliminato i rischi, come s’è fatto con i derivati, induco ad andar per mare i non natanti e a far salire in vetta gli obesi. Finiranno annegati e sfracellati, perché non sono stati in grado di vedere il rischio.
I governi dovrebbero guardare alle economie reali, sapendo di non potere governare quelle virtuali, che sono, per definizione, sovranazionali e digitali. Il nostro governo non può fare un accidente per la Borsa di Milano, ma può fare molto per la nostra economia. Se gli rimproveriamo i crolli e da Palazzo Chigi si guardano solo gli indici ci prendiamo tutti in giro. Il tema della finanza globale dovrà essere argomento di relazioni internazionali, perché quella macchina, che è importante e deve funzionare, rischia di stritolare tutto. La regolazione della finanza ha oggi un valore pari alla risoluzione delle dispute territoriali: o lo si fa con la diplomazia o finiscono con il parlare le armi (siano essere quelle da fuoco o da speculazione). Nell’attesa c’è moltissimo da fare, ma ha a che vedere con le nostre capacità cognitive e produttive. Insomma, se l’economia s’esaurisce nella finanza (che, lo ripeto, è pur importantissima) sconfina nella stregoneria, e se la politica s’esaurisce nell’inseguire gli speculatori deborda nella totale inutilità.
Il benessere non s’inventa e non si brucia, ce lo si guadagna. Lavorando. Il dovere dei governanti è regolare i mercati in modo che i nostri risparmi non siano divorati da sconosciuti smanettatori con il master, ma anche quello di ricordare che non si diventa miliardari standosene in panciolle e affidandosi a loro.

da: www.DavideGiacalone.it

La buttano in cagnara ma sanno come uscirne

Stiamo assistendo, ma era prevedibile vista la dilatazione dei tempi fra l'annuncio del piano di risanamento e l'inizio del dibattito parlamentare, ad una squallida commedia della politica sugli interventi strutturali (?) per azzerare il deficit corrente dell'Italia entro il 2012.
È bene avere coscienza che la leva maestra è sempre quella delle entrate, come hanno fatto nel tempo ed in situazioni emergenziali dal '92 ad oggi la sinistra, la destra ma anche e soprattutto i governi dei mandarini di stato. La ragione è di una semplicità disarmante: per raccogliere soldi sicuri occorre prelevare laddove le fonti sono note ed accertate.
Inutile dire che pagano i soliti. Sì, pagano e pagheranno sempre i soliti, perché con la lotta all'evasione siamo a zero, sostanzialmente perché gli italiani non credono a questo stato e non sentono il dovere civico, etc. ma sono elettori buoni come gli schedati dal fisco, classici vasi di coccio di manzoniana memoria.
O si ha il coraggio di essere reazionari assolutisti, riservando il diritto di voto a chi contribuisce all'erario, o ci si accetta come siamo in questa finzione di stato in cui viviamo.
Torniamo al dibattito. La sinistra e Casini fanno il loro mestiere negando validità al piano e mettendo in evidenza, giustamente, l'assenza di un qualsivoglia progetto di rilancio dell'economia. Questo governo, o meglio Tremonti che è l'unica testa pensante della compagnia, si comporta come i manager bancari di oggi: dinanzi ad un cambiamento epocale del modo di fare banca non tagliano i costi e rimediano a decennali inefficienze, ma aspettano una ripresa degli spread sempre più lontana nel tempo.
Si afferma che si è disboscato il mondo degli enti locali e quindi si risparmierà moltissimo. Rammento che nel suo piccolo, un governo della prima repubblica fece eguali prospettazioni sulla eliminazione degli enti inutili, che ad anni di distanza sono rimasti in vita magari semplicemente cambiando pelle e finalità sociale.
Figuratevi con i comuni e le provincie, provvedimento già di per sè urticante per la cultura campanilistica degli italiani, ed in fondo ultimo baluardo di democrazia diretta nel nostro paese.
La triste realtà è che in Italia le riforme strutturali non si possono fare, perché la burocrazia, vera padrona del paese, vuole che nulla cambi per perpetuare la sua centralità ed inamovibilità. E gli italiani non sono disposti a fare nessuna rivoluzione, perché di questa burocrazia ci campano in tanti e perché comunque non credono che valga la pena cambiare lo status quo.
Cosa succederà in Parlamento? Poco importa e poco rileva. Chiediamoci invece cosa farà la Bce dopo le nostre abituali e rumorose cagnare.
Io vedo delineata una pesante patrimoniale che Amato, gran maestro di salassi, ha già profetizzato ed auspicato quest'inverno. Quanto ai mega progetti, verranno ripensati in una logica più ampia e sotterrati sino alla prossima recita.